Italo Calvino l’aveva intuito prima che la recessione attuale costringesse tutti a riorganizzare le proprie spese e a razionalizzare certe smodate esigenze: il Natale è diventato motore propulsore per il commercio e, nello scambio di regali spesso imbarazzanti, si cela l’esigenza di smerciare e produrre da parte dell’industria.
Parafrasando Oscar Wilde:”Si è buoni per scelta, altrui“.
Marcovaldo, l’eterno ingenuo del popolarissimo romanzo di Italo Calvino, si apre, nell’ultima storia dell’omonimo romanzo, alla constatazione struggente del clima di festa natalizio.
La meraviglia straniata e quasi inattuale del protagonista è una strizzatina che Calvino fa con occhio cinico al lettore arguto: leggiamola insieme.
Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s’inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po’ abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d’affari le grevi contese d’interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.
Per farla breve, Marcovaldo è scelto come Babbo Natale: lui, l’operaio straniato in una industria oppressiva e stringente, si commuove nell’incarnare un personaggio di gioia (e anche, perché no? Avrebbe accumulato qualche straordinario: “Con quei soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio”)
Sono i suoi bambini, assai più integrati di lui nelle brutture del mondo, a disilluderlo. La mascherata è percepita per ciò che è: un rito deprezzato perché esteso proprio a tutti, una cretineria collettiva che trasforma in tante sagome poco credibili tutti gli uomini adulti del condominio.
Nuova sorpresa attende il nostro eroe: il figlioletto, che lo accompagna nelle consegne natalizie, rimane turbato dalla lussuosa casa di cui vi riporto la ammirevole descrizione: “La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell’abete s’impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c’era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un’aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.”
Marcovaldo, alieno dall’invidia di classe, ma preoccupato per il complesso di inferiorità che avrebbe potuto sviluppare il bambino, rimane perplesso quando scopre che il suo figliolo ha considerato quel bimbo annoiato e triste il vero “povero” da aiutare. Lui, figlio di operai, assieme ai suoi altrettanto miseri fratelli, prende l’iniziativa di fare un regalo al ragazzo solo: quest’ultimo, con il martello, il tirasassi e i fiammiferi, poveri doni recapitati con il cuore dai ragazzi di periferia, scopre l’infanzia e incomincia a distruggere, calpestare, annientare il lusso che lo ha emarginato con se stesso, fino all’iperbolico falò con cui distrugge casa.
Niente di grave, per il padre superimprenditore, che anzi capta il potenziale eversivo del regalo di distrazione e fa anche di quel momento di liberazione uno spunto di marketing, un oggetto di culto.
A Marcovaldo, sempre più perplesso, non resta che ritornare “nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cava
Answers & Comments
Verified answer
I figli di Babbo Natale
L'ultima storia di Marcovaldo (Italo Calvino)
Italo Calvino l’aveva intuito prima che la recessione attuale costringesse tutti a riorganizzare le proprie spese e a razionalizzare certe smodate esigenze: il Natale è diventato motore propulsore per il commercio e, nello scambio di regali spesso imbarazzanti, si cela l’esigenza di smerciare e produrre da parte dell’industria.
Parafrasando Oscar Wilde:”Si è buoni per scelta, altrui“.
Marcovaldo, l’eterno ingenuo del popolarissimo romanzo di Italo Calvino, si apre, nell’ultima storia dell’omonimo romanzo, alla constatazione struggente del clima di festa natalizio.
La meraviglia straniata e quasi inattuale del protagonista è una strizzatina che Calvino fa con occhio cinico al lettore arguto: leggiamola insieme.
Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s’inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po’ abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d’affari le grevi contese d’interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.
Per farla breve, Marcovaldo è scelto come Babbo Natale: lui, l’operaio straniato in una industria oppressiva e stringente, si commuove nell’incarnare un personaggio di gioia (e anche, perché no? Avrebbe accumulato qualche straordinario: “Con quei soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio”)
Sono i suoi bambini, assai più integrati di lui nelle brutture del mondo, a disilluderlo. La mascherata è percepita per ciò che è: un rito deprezzato perché esteso proprio a tutti, una cretineria collettiva che trasforma in tante sagome poco credibili tutti gli uomini adulti del condominio.
Nuova sorpresa attende il nostro eroe: il figlioletto, che lo accompagna nelle consegne natalizie, rimane turbato dalla lussuosa casa di cui vi riporto la ammirevole descrizione: “La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell’abete s’impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c’era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un’aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.”
Marcovaldo, alieno dall’invidia di classe, ma preoccupato per il complesso di inferiorità che avrebbe potuto sviluppare il bambino, rimane perplesso quando scopre che il suo figliolo ha considerato quel bimbo annoiato e triste il vero “povero” da aiutare. Lui, figlio di operai, assieme ai suoi altrettanto miseri fratelli, prende l’iniziativa di fare un regalo al ragazzo solo: quest’ultimo, con il martello, il tirasassi e i fiammiferi, poveri doni recapitati con il cuore dai ragazzi di periferia, scopre l’infanzia e incomincia a distruggere, calpestare, annientare il lusso che lo ha emarginato con se stesso, fino all’iperbolico falò con cui distrugge casa.
Niente di grave, per il padre superimprenditore, che anzi capta il potenziale eversivo del regalo di distrazione e fa anche di quel momento di liberazione uno spunto di marketing, un oggetto di culto.
A Marcovaldo, sempre più perplesso, non resta che ritornare “nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cava